Una banda di idioti - John Kennedy Toole


Come esordire dopo più di una settimana passata senza aggiornare il blog? Senza contare che gli ultimi post hanno ben poco a che vedere con la matrice vitale che mi ha portato a creare questa piccola pagina, il recensire libri. Anzi, dando una controllatina, è dal 30 Agosto che non pubblico una recensione. Che è accaduto? Beh, c'è che sono un po' stanca, prima di tutto. Non del blog, men che meno dei libri, ci mancherebbe. È la stanchezza dell'uscire da un utero serrato, dello spingere contro una porta che non vuole aprirsi, dell'affacciarsi su un mondo scuro e vischioso. Un alternarsi di ansia ed entusiasmo, qualche folata di ferrea sicurezza, necessaria per un paio di notti di sonno prima del riemergere del caos. In soldoni, questo sabato mi trasferisco dalla mia amica in Emilia e da lunedì, finalmente, cominciano le lezioni. Ricominciare quasi dal nulla dopo essere stata ad un passo – idealmente – dalla laurea è... è in un certo senso atroce. Ma se mi volto indietro non riesco a vedere neanche il fantasma della strada che ho percorso, quindi...

Ma veniamo alla recensione di oggi, la prima dopo tanto tempo. Una banda di idioti di John Kennedy Toole, pubblicato dopo il suicidio dell'autore per volere della madre (la pubblicazione, non il suicidio, che qui la sintassi italiana potrebbe far sorgere dubbi delittuosi) nel lontano 1980, vincitore del Premio Pulitzer nel 1981 e infine edito in Italia per la Marcos y Marcos nel 1998. Mi frulla già in mente un altro post dedicato alle case editrici indipendenti che negli ultimi anni crescono e fioriscono, nutrici e nutrite dei migliaia di lettori orfani delle Big, ma... beh, un'altra volta. Per adesso bisogna parlare dell'opera di Toole e del suo protagonista, Ignatius Reilly.
Ignatius è un patetico e pedante scassapalle. Viziato, egoista, scontroso, aulico, insistente. Baldanzoso e vigliacco, codardo quanto irruento. La voce del genio e della frustrazione, il grido dell'intelletto rifiutato e incompreso che diventa un rigurgito lamentoso pieno di rabbia e spocchia. È lui il fulcro di un romanzo corale, un trentenne grasso e volutamente nullafacente incatenato al ventre materno come non potesse fare a meno del cordone ombelicale che lo lega ad una madre umile e paziente quanto ignorante che egli non fa che disprezzare. È forse la sua ansia nell'accontentare il figlio a castrarlo continuamente, a impedirgli di crescere e confrontarsi col mondo. Il comodo riparo di una salute cagionevole usata come scudo per rifugiarsi in un mondo di fantasie egocentriche e gloriose, un ventre gonfio d'invidia e ribrezzo.
Non ci viene narrato soltanto di Igniatius. Ci sono anche l'agente Mancuso, Santa Battaglia, le Manifatture Levy, Jones il semi-schiavo nero che è l'unico a rendersi conto della capacità di Ignatius di capitombolare nella vita di gente che non ha mai visto e rivoltarla come un calzino. È come un terremoto, Ignatius. Devasta ogni cosa che tocca, stupisce e spaventa, diverte e sconvolge. Su Anobii, tanto per cambiare, ho letto recensioni negative motivate con l'antipatia del personaggio. Ma amico mio lettore, Toole vuole che tu odi il suo Ignatius. Ignatius è un enorme ammasso di complessi e lamentele, uno spocchioso arrogante misogino moralista maschilista presuntuoso bastardo. Certo che lo devi odiare. È qui parte della bellezza del libro, nel tuo ghigno compiaciuto.
Eppure devo dire che una parte di me ha compreso Ignatius, forse più del necessario. Quest'anno appena passato, che ho trascorso fuori corso in casa di mia madre... beh, devo dire che mi ha svalvolata. È stato un anno castrante, debilitante, stancante eppure orrendamente statico. Troppo tempo per pensare, per recriminare, per domande superflue e riflessioni senza capo né coda. E se a me è bastato un anno, quanto ci è voluto a Ignatius per ridursi com'è?
Ma vi dicevo dell'opera di Toole. Divago sempre, c'è poco da fare.
Scritto in terza persona, scorrevole e vivace, presenta non soltanto le vicende del già citato protagonista, ma anche quanto accade alle persone che egli, volente o nolente, si trova a sfiorare. Un cerchio di gente legata soltanto da Ignatius, un puzzle con pezzi sfasati e che pure finisce per ricomporsi in una figura un po' bizzarra e con troppi colori. C'è tanta ironia, in queste pagine, abbastanza per tirare giù un critico devoto. Personaggi e situazioni vengono esasperati nei loro tratti caratteristici, a voler rappresentare le brutture e le ingenuità, l'ottusità e le meraviglie di un'umanità che, sicuramente, Toole conosceva bene.
Faccio anche notare che la traduttrice Luciana Bianciardi ha vinto il Premio Monselice nel 1983 con questa traduzione. Meritatissimo, visto che è una delle trasposizioni migliori che io abbia mai letto.
Superfluo dire che lo consiglio, più che con l'anima, con stomaco e viscere.