A volte ritorno di
John Niven – traduzione di Marco Rossari – Einaudi, 2011
A
questo libro mi sono avvicinata dopo un po' di tentennamenti. L'ho
tenuto intonso sul comodino per quasi un mese, prima di decidermi a
leggerlo. Poi per leggerlo c'ho messo un giorno solo, il che già
qualcosa lo suggerisce. Oddio, ammetto che le prime pagine mi hanno
fatto seriamente ponderare l'idea di rimetterlo giù. Non ho niente
contro la volgarità – come ben sa chi mi conosce di persona – ma
mi infastidisce quando è fine a se stessa, quando feci e falli
vengono lanciati senza alcun motivo da un lato all'altro della
conversazione come palline da ping-pong. Inoltre... ecco, io credevo
che Niven fosse americano. Un americano deluso, incazzato, stufo
marcio di trovarsi a dividere l'ossigeno con frotte di creazionisti e
spietati rimbambiti d'ogni sorta. E invece è scozzese. La cosa un
po' mi ha spiazzata, ma poi, beh, ammetto che ho trovato il mio
stesso stupefatto sdegno riflesso nelle sue pagine.
Cioè,
America... perché? Hai la NASA. Il MIT. London, Hemingway,
Steinbeck, Twain. E poi ti riduci a 'sti punti. Creazionismo, sanità
privata, scuole pubbliche schifose, il divieto dell'insegnamento
dell'evoluzione perché offende la religione. Cioè, America...
perché?
Che
poi credo sia uno dei motivi per cui l'America ha dato i natali ai
più grandi comici del mondo. È dallo sterco che nascono i fiori,
no? Infatti Niven apre con una citazione di Bill Hicks e più avanti
ci lancia anche una frase di George Carlin. I comici americani sono
così intensamente lucidi che non sembrano neanche fare parte dello
stesso mondo dei repubblicani.
…
ma la pianto di divagare? Un po' di contegno, su. Non ho ancora detto
una sillaba sulla dannatissima trama, che diamine.
Allora,
Dio è andato in vacanza. Intorno al Rinascimento, vedendo che tutto
andava bene, si è detto che poteva anche prendersi una settimana di
ferie – il tempo del Paradiso scorre ben diversamente rispetto al
nostro – e il libro comincia così, col suo ritorno in ufficio.
Allegro e contento – io non riesco a non immaginarlo come il Drugo
– porta il pesce fresco alla segretaria, chiacchiera allegro coi
sottoposti – gli Angeli – e poi si ritrova a doversi mettere in
pari con l'evoluzione intellettuale dell'uomo, cosa che lo lascia in
lacrime.
Che
fare, se non rimandare Gesù sulla Terra?
Ecco,
è più o meno da questo punto che ho cominciato ad adorare questo
libro. Perché il Paradiso era veramente inconcepibile, troppo
allegro e luminoso e 'tutto va bene' e 'tutti ci vogliamo bene'. Poi
Gesù si risveglia nel buco di NY in cui abita con un paio di vecchi
amici, due dollari in tasca e il pensiero fisso di fare del bene alle
persone, barbaramente ostacolato dalle suddette persone. Ha preso con
sé un paio di barboni ed ex-tossiche, una delle quali con due
bambini che lo adorano. Gli amici con cui suona da anni lo convincono
a presentarsi ai provini di American Popstar – che poi sarebbe
American Idol – e... e beh, la storia va avanti, si sviluppa,
cresce, si contorce.
Bello.
Non mi piace quello che fa vedere, soprattutto perché è vero. Così
vero da essere ovvio. E non dovrebbe esserlo.
Comunque
sia, io lo consiglio. Mi è piaciuto un sacco, anche se non posso
dire che sia stata una lettura indolore.
L'ultimo lupo mannaro
di Glen Duncan – traduzione di Tomaso Biancardi – Isbn Edizioni,
2011
Questo
lo bramavo da millenni. Un libro sui licantropi edito dalla Isbn.
Cioè, io sono – sarei? - una grande appassionata di
vampiri-licantropi-streghe e quant'altro, se non fosse che ormai le
loro rappresentazioni si sono sgretolate sotto il peso delle
storielline d'amore per adolescenti. Quindi, sì, questo libro è
stata una boccata d'aria fetida e cadaverina. E sì, è un gran
complimento. Questo è un libro sui lupi mannari. Rimane ancora da
capire perché cavolo Duncan abbia voluto chiamare il suo
protagonista Jacob, ma a parte questo è e rimane un gran libro sui
lupi mannari.
Il
protagonista, appunto Jacob, narra in prima persona sul diario che si
porta sempre dietro. Da quando duecento anni fa ha compiuto la sua
trasformazione dopo il morso di un licantropo, è cambiato.
Radicalmente. Ha scelto di sopravvivere e di diventare un mostro. Non
sta ad ammantarsi di moralismi o a cercare di dimenticare quello che
è, bensì ha finito per accettarlo. O questo o il suicidio, si era
detto, e non avendo voglia di morire...
Sangue.
Tanto sangue. Organi spappolati, arti strappati, scontri a fuoco,
feci, sterco, sesso. Tanto per non farci mancare nulla, no? Ed è
scritto meravigliosamente. Forse è questo che stupisce di più.
Nonostante la crudezza dei contenuti e i pezzi di carne sanguinolenta
che ci vengono propinati ben volentieri, la scrittura non è una
fredda sceneggiatura, un mero riassunto. È scritto veramente,
veramente bene. Le figure retoriche, le riflessioni, i dubbi di Jacob
sul morire o il non morire.
Perché
Jacob è stufo, annoiato, depresso. Il suo contatto col WOCOP –
l'organizzazione che caccia e uccide i lupi mannari – gli comunica
che è rimasto solo, l'ultimo della sua specie. E... e beh, la trama
si mette in moto con una rapidità tale che mi è anche difficile
parlarne. Da subito, prometto, tanto sangue.
Bello,
tra l'altro, il mondo 'sovrannaturale' che ci viene presentato. Mi è
piaciuto, l'ho trovato credibile. Forse un po' scontato, ma a questi
punti non può essere altrimenti.
Quindi...
quindi sì, lo consiglio agli appassionati del genere. E non vedo
l'ora di leggere il seguito.