Shantaram di Gregory David Roberts

Tradotto da Vincenzo Mingiardi, edito da Neri Pozza nel 2003 in un formato enorme e decisamente scomodo – non oso pensare allo sfacelo di ossa se mi fosse caduto su un piede – Shantaram è... beh, bellissimo. È la prima parola che mi viene in mente per descriverlo, per un sacco di motivi.
Non so fino a che punto l'autore si sia ispirato al proprio vissuto, di certo è pieno di lui. Per l'evasione dal carcere di massima sicurezza, per la fuga a Bombay, per la dipendenza dall'eroina e per il passato da rapinatore. Fin qui ci siamo. Però... davvero? La storia dello slum, il legame con la mafia indiana, l'amicizia con Prabaker, con Vikram che si veste da cow-boy, l'orso abbracciatore, il carcere... davvero? Tutto? Non basta una vita per tutte queste esperienze, figuriamoci dieci anni. O forse il punto è quello, che a Bombay tutto è possibile.
Dunque, vediamo. La storia inizia con l'arrivo di Roberts a Bombay, il suo scontro col caldo, pieno di dubbi sul proprio futuro e sull'affidabilità del passaporto falso. Si aggrega a un gruppo di neozelandesi e si fa passare per uno di loro dalla sicurezza. Sale su un bus sgangherato, guarda l'India che gli passa sotto gli occhi. Rimane folgorato dall'espressione quieta e soddisfatta di un uomo che esce da una baracca dello slum, chiacchiera con due turisti.
Giunti a Bombay, viene avvicinato da una guida. Un ometto basso, mingherlino, con un sorriso largo sfavillante. Prabaker. E grazie a Prabaker... ecco, non posso dire che 'la trama si mette in moto'. Perché dopotutto è una storia più vera che inventata e in buona parte è fatta di osservazione, di ricordi, di cambiamenti, piuttosto che seguire un filo narrativo fisso e immutato. Però la conoscenza con Prabaker dà il via a tutto quello che viene dopo. La vita di Roberts sarebbe stata così diversa, se non avesse accettato la compagnia della guida...
E dunque, Roberts si vede affibbiare un nuovo nome dalla guida. Linbaba, abbreviato in Lin. Per la cronaca, grande pene. Per dire. Diventerà anche Shantaram, col tempo. Visita Bombay, si fa condurre nella città vera, non nella parte un poco più ordinata, destinata ai turisti. Si immerge nelle fumerie, nei mercati caotici, passa diversi mesi nel villaggio di Prabaker, aiutando la sua famiglia coi campi. Tutti sorridono contenti e lo festeggiano, quando lo sentono parlare il loro idioma. Sono orgogliosi quando scuote il capo in un gesto di rassicurazione tipicamente indiano. Lo accolgono, ecco.
Non credo sia il caso di andare avanti nella spiegazione di ciò che accade. È una successione di avvenimenti che preferisco non rivelare, anche se non so fino a che punto possa trattarsi di 'spoiler'. Lin scrive di quello che gli accade, ripensa al cercere da cui è fuggito, alla famiglia, soprattutto alla figlia, che non vedrà mai più. Si apre al dolore che ha provocato, inciampa e provoca altro dolore per venirne sommerso. Sono dieci anni, dopotutto.
Sì, ci sono tanti filosofeggiamenti. Per i miei gusti, anche troppi. Però io storco sempre il naso di fronte a ciò che è filosofeggiare, quindi prendete il mio tentennamento con le pinze.
E ci sono scene di una violenza tremenda. Mi è capitato di dover saltare due pagine, per non dover leggere cosa accadeva e... beh, vi avverto. Può dare fastidio.
Mi ha fatto venire voglia di andare in India, cosa che non mi era mai successa. Non è il tipo di posto che fa per me. Troppo caldo, troppa gente, troppa confusione. Io voglio la pioggia, il silenzio, un freddo abbastanza spesso da darmi una buona ragione per avvolgermi in un plaid e bere cioccolata calda. Eppure leggendo volevo proprio andare in India. A Bombay, per vedere se è davvero così caotica e calorosa.
Va da sé che lo consiglio. Certo che lo consiglio. Non come lettura 'di passaggio' tra un libro e l'altro, non come libro da leggere durante gli esami. Ammetto che l'ultima parte mi è sembrata un po' di troppo e cavolo, pesa anche un sacco, portarselo appresso è una tortura.

Però è stupendo. Uno dei libri più belli che io abbia letto quest'anno.