Come ho preso lo scolo di Tiziano Scarpa

Qualche tempo fa ho ricevuto una mail di Tiziano Scarpa, che mi chiedeva se fossi interessata a ricevere in lettura il suo ultimo libro. Prontamente ho risposto che sì, certo, volentieri. Avevo gradito di molto Stabat Mater, e il libro che mi offriva stazionava nella 'Lista dei libri che mi sarei auto-regalata per il mio compleanno'. E avendone da poco terminato la lettura, sarebbe d'uopo che io iniziassi a disquisirne, a spiegarne i contenuti, la forma, il 'perché'. Invece mi prendo ancora una manciata di righe per spiegare com'è che Scarpa mi ha contattata, che trovo la questione interessante.
Mesi fa ho recensito Come finisce il libro di Alessandro Gazoia, saggio interessantissimo sulle ripercussioni del digitale e di tutto quello che comporta sull'editoria. È anche tanto altro, e io ve ne consiglio spasmodicamente la lettura, ma qui non spiegherò oltre, che il post l'ho già linkato. Dicevo, nel suddetto illuminante volume c'era un intervento di Scarpa che mi ha fatto girare le brugole a mach 5, e per il quale nella recensione ho espresso il mio cocente disappunto, con una sprezzante coloritura. Il mio intervento è stato letto da Scarpa che, stupito da tanto spregio, ha deciso di farsi sentire, cosicché un bel giorno mi sono trovata una cortesissima mail dalla quale è scaturita una bella discussione. E dunque, sì, è per questo che Tiziano Scarpa mi conosce. Perché l'ho insultato sul blog.
Soprassediamo.
Come ho preso lo scolo, pubblicato da Effigie nel settembre di quest'anno, è una raccolta di saggi – cinque – ognuno dei quali parte da un particolare evento capitato all'autore per via dei suoi libri. Chiarifico, che non è facilissimo da spiegare. Non si tratta di saggi sulla scrittura o sull'essere scrittori, ma racconti di avvenimenti che non avrebbero avuto luogo se l'autore non fosse stato uno scrittore. Non si fermano all'avvenimento, scivolano verso il 'perché' e il 'per come', e soprattutto verso il 'e poi', soprattutto due di questi. È un po' difficile parlarne come se fossero un tutto unito, quindi facciamo che divido il post per capitoli.

Come ho preso lo scolo

Su questo non c'è molto da dire, è breve e divertente. Quello che stupisce è il tipo di domande che deve vedersi rivolgere uno scrittore da intervistatori... come dire, eccessivamente zelanti?

Nel deserto con Monicelli

Così come anticipa il titolo, qui Scarpa racconta di quando ha recitato per un paio di scene nel film Le rose del deserto di Monicelli. Monicelli è un pezzo di cinema che mi manca, così come tutta l'enorme fetta di cinema italiano. Credo dipenda dal fatto che non ho mai imparato a rispettarlo né ad apprezzarlo, il cinema nostrano. Il suo sgretolamento è iniziato prima che io potessi conoscerlo, e adesso andare alla ricerca del suo splendore mi sa di archeologia, di ricerca storica più che di visione cinematografica. Monicelli, però, devo recuperarlo. Lo sapevo anche prima di leggere questo saggio, però ora lo sento almeno quel poco più vicino che basta perché mi vada a procacciare qualcosa di suo.

Cosa ho imparato in piazza

Mi è difficilissimo immaginare cosa voglia dire abitare in un luogo in cui, santoddio, la Lega è una forza maggioritaria. Sono cresciuta in una delle cosiddette 'regioni rosse' e fino all'ultimo anno delle superiori non avevo mai parlato con un leghista. Davvero. Per me la Lega era reale come la versione razzista di Babbo Natale, e che esistesse gente capace di ascoltare Borghezio senza scoppiare a ridere per me era, e rimane, un mistero insondabile.
Ma Scarpa è veneto e il Veneto è, come buona parte del nord, zona leghista. Ed è inutile cercare di nascondere o spiegare l'istinto che scalpita dietro la Lega, che venga dalla paura, dall'ignoranza o dall'essere degli incontrovertibili schizzi di guano. Razzismo, omofobia, la propria cultura intesa in ogni sua minima manifestazione come una rocca inespugnabile, e l'arrivo di culture altre come una minaccia che non tarderà a esplodere. Il 'prima noi' che è espressione dell'egoismo più bieco e disgustoso, impossibile da nascondere – per quanto non siano pochi a tentare – con ragioni di economia, di mercato, di territorio.
E dicevo, in questo saggio, quello che più si arrovella e dispiega, Scarpa parte da una manifestazione cui ha preso parte nel 2008, insieme ad altri colleghi scrittori, che voleva riaffermare l'accoglienza come valore. E parte dalla piazza in cui la manifestazione ha avuto luogo per raccontare altre piazze, il potere dell'amplificazione, le cronache sui giornali e i loro toni, la radio. Passa per D'Annunzio, per Hitler, per Woody Allen col suo discorso meta-filmico in Io e Annie, per Cultura convergente di Henry Jenkins, che sto leggendo in questo periodo per la tesi – non è strano come a volte i libri che leggiamo si intreccino e si incontrino, quasi si fossero messi d'accordo? - e il suo saggio dedicato al reality Survivor. Dai discorsi ai loro mezzi. È il saggio più lungo del libro, ne copre quasi metà, e credo sia quello che ho gradito maggiormente, anche se probabilmente è anche il meno 'leggero'.

La realtà e le leggi

Per chi non lo sapesse, Stabat Mater parla di un'orfana nell'Ospedale della Pietà, ed è ambientato all'inizio del '700, quando Vivaldi ha iniziato a collaborare con l'istituto. Non conosco abbastanza compositori per poterlo affermare con ferrea certezza, ma Vivaldi al momento uno dei miei compositori preferiti. Non tanto per le sue Stagioni, ma per altre composizioni, che magari linkerò in fondo al post. Il suo Stabat Mater, tanto diverso dalle sue allegrie barocche, non manca mai di accompagnarmi nel tragitto verso un esame particolarmente complesso.
A chi fosse interessato alla vita di Vivaldi consiglio la lettura di questi libri, che magari non sono particolarmente esaustivi, ma una buona infarinatura la danno.
E dunque, quando mi sono approcciata a Stabat Mater – poco dopo la discussione con Scarpa, ero curiosa di leggere qualcosa di suo – non sapevo di cosa parlasse. È stato bello ritrovare quel particolare convento, e sapere che lo studio musicale delle allieve precedeva di molto l'arrivo di Vivaldi. È stato bello conoscere anche la protagonista, Cecilia, ma non è questo l'argomento del post.
Dopo la pubblicazione di Stabat Mater, Scarpa viene invitato a Napoli dal 'Comitato per il diritto alla conoscenza delle origini biologiche', e viene a conoscenza delle regole assurde che regolano i diritti degli adottati in Italia, della totale impossibilità di rintracciare i genitori biologici, in contrasto con le legislazioni vigenti nel resto del mondo civilizzato in cui, pur rispettando la privacy del genitore, esiste uno spiraglio per poter porre delle domande, e chiedere risposte. Qui, nulla. Muro, baratro, silenzio.
Chissà perché, non sono stupita.

Disavventure del mio nome

Comprendo Scarpa, in quest'ultimo saggio. Il mio cognome è comunissimo nella mia zona, anche se non posso vantare omonimi illustri come quelli dello scrittore. Né mi è mai capitato di sentirmi attribuire speranzosamente discendenze ignote, né l'omonimia con un ragazzo deceduto.
Il focus però non sta negli aneddoti, ma dalle varie considerazioni sul valore del 'nome', che sono state al centro della discussione che ho avuto con Scarpa, mesi fa. La responsabilità del nome, della sua forza performativa, del valore che si inceppa nelle dichiarazioni non firmate o siglate con uno pseudonimo. Il valore della riconoscibilità, del cambio di idea che può celarsi dietro un cambio di firma, e delle dichiarazioni che restano invece incollate al dato anagrafico. E così via.
Invero è stato curioso rileggere alcune argomentazioni su carta, anche se ancora adesso non riesco a dirmene convinta. Le comprendo e penso sia impossibile confutare la questione della responsabilità individuale. Eppure non riesco neanche a vedere dimezzato il valore delle affermazioni di chi sceglie lo pseudonimo. Non riesco a credere nel pieno potere del nome anagrafico che si prosciuga nel nome fittizio. È troppo semplice parlare di identità staccate che si avvalgono di uno stesso corpo, e delle diverse funzioni che queste identità possono ricoprire, senza sfiorarsi mai, è ovvio che la discussione non può esaurirsi così facilmente. Scarpa parla di quello che si può fare e non fare col suo nome reale, e ha ragione.
Eppure, pur concordando che certe cose non si possono fare se non con la propria identità anagrafica, non riesco a non pensare che altre possano anche rimanere in un'unità confinata all'interno della propria identità, senza che questo le sminuisca. Di certi blogger conosco nome, cognome e viso, e lo stesso, con l'ausilio di google, può dirsi per buona parte degli scrittori che leggo. Ma altri, come me, scelgono piuttosto un nome fittizio. Se dovessi rispondere al perché della scelta, davvero, non saprei che rispondere. È una ragione puramente istintiva. La parte di me che dedico ai libri, mi viene da dire, è 'mia'. È una parte altra, completa, che sta sotto il suo nome, e mi fa strano vederla affiorare nella vita di Erica.
Forse sono semplicemente legata più al 'cosa' che al 'chi'. Il 'chi', per me, è accessorio. È rilevante solo in funzione di altri 'cosa'. Le parole sono indipendenti da chi le pronuncia o le scrive, è piuttosto quella persona ad essere definita dalle proprie affermazioni. In questo, a ben vedere, sono in disaccordo con buona parte delle mie conoscenze, e me ne accorgo quando chiacchieriamo di politica o di società in generale.
Ma qui rischio di non finire più. Credo che ognuno abbia una propria percezione del tema 'nome', ma da dove venga questa percezione non so dirlo.
Mi riservo, ovviamente, di cambiare idea. Di nuovo. Come mi capita, del resto, piuttosto spesso.

 
E dunque, questi erano i saggi, uno per capitolo. Mi rendo conto che è un post parecchio lungo, e plaudo a chi ha saputo raggiungerne la fine. È stata una lettura interessante, nonostante il mio legame con la saggistica sia flebile. Ho trovato diversi spunti interessanti, dal racconto di un set cinematografico nel deserto alle letture in piazza. Credo che questo sia uno dei post che ho impiegato più tempo a scrivere, ragion per cui salto gli svolazzi di congedo e filo a prepararmi il pranzo.
E tanto, tanto caffè.