Hannah Coulter di Wendell Berry

Stamattina mi sono alzata presto, orrendamente presto, al punto che potuto fare comodamente colazione e poi tornare a letto a leggere la seconda metà di Hannah Coulter di Wendell Berry, tradotto da Vincenzo Perna e edito da Lindau nel 2014, e finirlo prima delle 8.30.
Ci sono un sacco di cose da dire su Hannan Coulter, così tante che per un attimo mi sono chiesta se non fosse il caso di dividere la recensione in due parti. Idea presto scartata. Voglio dire, me stessa, taglia, sii breve.
Il fenomeno Wendell Berry mi ricorda molto il fenomeno John Williams subito dopo la pubblicazione di Stoner da parte della Fazi, anche se su scala ridotta. A un certo punto, qualche mese fa, hanno iniziato a scoccare da un punto all'altro della blogosfera recensioni entusiastiche, sperticate dichiarazioni d'amore per i libri di uno scrittore americano nato negli anni '30, assolutamente sconosciuto in Italia e le cui storie sono descritte come di una semplicità disarmante eppure incredibilmente forti. Mi nasce un po' la curiosità, così come è stato per Stoner, anche se il ripetersi del fenomeno un po' mi spaventa, perché mi costringe a chiedermi di quanti altri tesori ci stiamo privando, e quanti riusciranno infine a raggiungerci, grazie a una riscoperta che sembra quasi un caso.
Hannah Coulter è arrivata agli ultimi stralci della sua vita. È anziana, stanca, ma soddisfatta, e fissa le braci nel suo camino, seduta in poltrona, tirando i fili della propria vita. È stata lunga, è stata dura, è stata bella. Sempre in campagna, a stretto contatto con la terra. È questo un po' il fulcro del romanzo, il legame con la terra e tra le persone che vi sono legate. Viene spesso ripetuta la parola “comunità”, che in questi tempi ha perso quasi completamente ogni accezione positiva, è diventata sinonimo di anonimato, costrizione, un noioso e avvilente protrarsi di doveri sociali e cancellazione dell'individuo. Hannah invece ne parla con affetto, come se la comunità di Port William, in cui ha vissuto fino all'ultimo col marito Nathan, fosse un organismo a sé stante, caldo e vivo, un'unica entità fatta di tante piccole meravigliose entità.
So che è stupido, e so anche che vi annoierò un sacco, quindi vi invito a saltare questo capoverso, ma sento quasi di dovere a Hannah una risposta alla sua storia. Lei si è aperta a me con una sincerità totale e fiduciosa, e devo fare lo stesso. Vorrei dirle che un po' la capisco, e che sono d'accordo con lei più di quanto dovrei. Vorrei raccontarle della casa in cui sono nata, dei campi di erba altissima che circondavano da due lati la nostra proprietà, e di come siano entrambi scomparsi con gli anni. Dell'orto che mio nonno ha dovuto abbandonare da qualche anno, di come io e mia sorella siamo state libere di uscire e stare nel verde finché non hanno chiuso un paio di passaggi per costruire muri di cinta per i palazzi che sarebbero arrivati. Di quando raccoglievamo le olive nel cortile, di quando facevamo le conserve di pomodori e passavamo un'intera giornata inzaccherati d'acqua e succo di pomodoro, le mani piene di semi. Soprattutto, e scusate se vi ammorbo, della comunità formata dalla famiglia di mio padre, dalla quale mi sono sentita sempre un po' distante, e che solo negli ultimi anni ho iniziato a guardare con invidia. È una comunità da Port William, sul serio, coi lavori nei campi, la raccolta delle olive da portare al frantoio, una schiera incalcolabile di cugini e nipoti che io non ho mai visto, e che vivono tutti vicini tra loro.
Sento ancora affetto per quella casa, per quell'ambiente che è scomparso. Capisco Hannah quando parla del dovere, di reciproco aiuto, appartenenza a un luogo. Della soddisfazione nella fatica, del vivere di quello che si è prodotto. E di conseguenza mi sento un po' vicina a Wendell Berry, visto che Hannah la pensa come lui, anche se non ne ho ancora il pieno diritto.
La vita di Hannah non è stata solo terra e lavoro. C'è stata la sua infanzia, vissuta sotto l'amorevole supervisione della nonna. Ci sono stati i suoi studi, i suoi primi lavori, c'è stato Virgil, il suo primo marito, morto in guerra, e i genitori di lui che l'hanno accolta come una figlia. C'è stato Nathan, ci sono stati i figli, e poi i nipoti. Una vita piena e semplice, che verrebbe da ridurre a poche righe, a una manciata di eventi importanti. Una persona così... beh, perdonate la ripetizione, ma non c'è parola più giusta, così semplice e così ammirevole allo stesso tempo. Così forte senza essere prevaricante. Così consapevole, e saggia, senza sentirsi speciale né volerlo essere. Amo il punto di vista di Hannah, il suo ottimismo che non è illusione, il sottofondo di un “Beh, si va avanti” di fronte allo sconforto di una disgrazia.
Non penso che sia possibile spiegare pienamente Hannah Coulter. Io ci ho provato, nel mio piccolo. E ringrazio sommamente Francesca di Il club dei libri per avermelo prestato, insieme a Jayber Crow.