Jovanotti, incompetenza e lavoro culturale

Disclaimer: post variamente polemico privo di un filo logico degno di questo nome, pubblicato soprattutto per desiderio di discussione. Tra gli argomenti figurano lo sfruttamento del lavoro culturale e la perla di Jovanotti sul volontariato, ma si vira presto verso l'incapacità, effettiva o percepita, propria di alcuni interni del lavoro culturale, soprattutto in ambito librario.
Non mi azzardo neanche ad augurare “buona lettura”.

E dunque, qualche giorno fa Jovanotti ha detto una cavolata. Dubito che l'abbia detta col malvagio intento di legittimare lo sfruttamento del lavoro, non ce lo vedo con monocolo e sigari da cento dollari a spargere cenere sulle teste del volgo disgraziato. Per come la vedo io, è un po' vittima dell'ignoranza che ormai accomuna una stupefacente percentuale di italiani, su quello che è diventato effettivamente il mondo del lavoro, specie quello culturale.
Quella di cui intendo chiacchierare è una questione che ritorna a galla ciclicamente, a ritmi sempre più veloci. Se ne è parlato quando c'è stato il caso Voland – ora risolto con il pagamento dei debiti, quindi almeno questa è finita bene – e poi con la rivelazione dei contratti Expo, poi col bando per trovare migliaia di volontari che gestissero i beni culturali di Roma e infine col più recente caso Isbn. Se ne parla tanto e spesso, e non è che io possa aggiungere granché alla discussione, anzi. Però mi andava di parlarne.
Il caro, vecchio e polveroso caso dello sfruttamento nel lavoro culturale.
Come ogni problema che si rispetti, è determinato da una serie di concause. La mancanza di fondi per tutto ciò che è cultura, il fatto che le persone preposte alla risoluzione dei problemi brancolino nel buio e siano abbastanza cieche da trovarcisi a proprio agio. Il fatto che, in sostanza, di soldi non ce ne sono proprio, che si accompagna all'abitare una cultura in cui più sei gerarchicamente in basso e più è considerato legittimo ingannarti, logorarti, e farti pagare per una condizione strutturalmente marcia.
Ora, la mia non è una concezione particolarmente originale, e quindi mi pregio di affermare che dovremmo essere tutti sommariamente d'accordo nel tracciare una linea netta tra volontariato propriamente detto e sfruttamento del lavoro, in quel momento in cui qualcuno tra profitto dalle mansioni di qualcun altro. Chi non è d'accordo, onestamente mi perplime.
Ma dunque, dicevo, il lavoro culturale soffre più di ogni altro ambito lavorativo. È delegittimato dalla concezione che con la cultura non si mangi, e quindi perché dovresti trarne sostentamento economico? È bersagliato dalla mancanza di un'educazione culturale come si deve, da accuse esterne di snobismo e inneggiamenti interni a torri d'avorio che altrove sono crollate da decenni.
A mio avviso, uno dei problemi più ingenti è il fatto che tutti si sentono in grado di fare lavoro culturale. Tutti. Tutti coloro che sono in grado di reggere una penna, di balbettare che la nebbia agli irti colli piovigginando sale, tutti quelli che magari amano leggere e non è detto che leggano male, tutti quelli che si sentono alla pari con Pirandello perché hanno un manoscritto nel cassetto, tutti quelli che entrano in una libreria e pensano che gestirne una sia un gioco da ragazzi. Tutti quelli che insistono a scrivere “glie lo” e che paiono portatori d'una strana malattia genetica che li rende refrattari alla punteggiatura, e nonostante questo si mettono a offrire servizi editoriali per pochi denari, giusto per arrotondare, e si mescolano tra la folla come sedicenti free-lance, pronti a delegittimare ulteriormente le figure professionali di cui indossano le maschere.
Non so perché così tante persone siano convinte di saper fare cose che non sono in grado di fare. Non è che sia una prerogativa del lavoro culturale, c'è gente pronta a improvvisarsi idraulico che ti sfascia mezzo bagno prima di ammettere che forse il lavoro va oltre le sue possibilità. E mi capita di passare mezzore di puro divertimento, a scorrere le foto dei disastri combinati da certi tatuatori della domenica.
Eppure ho l'impressione che nel lavoro culturale, soprattutto quando si tratta di libri, si raggiungano livelli ancora superiori di incompetenza. Forse perché ho assistito a sfoggi di spaventosa ignoranza quelle poche volte che mi è capitato di dare un'occhiata dal di dentro (“Licia Troisi? Mai sentita, dobbiamo essere certi che sia adatta per i giovani, prima di metterlo a scaffale”), ma c'è anche da dire che non ho mai avuto esperienze in altri ambiti culturali. Magari ci sono musei in cui entri e ti dicono “Mondrian? Ma chi, il piastrellista?”, chissà.
Il fatto è che il lavoro culturale è logorato su più fronti, dall'interno e dall'esterno. Da chi giudica la cultura una perdita di tempo, un hobby, un poster appeso al muro portante dell'economia “vera”. E da chi dall'interno non si prende la briga di sottolinearne l'importanza perché sotto sotto non ci crede davvero, e magari è stato messo in un ruolo che non è in grado di gestire perché la persona che l'ha scelto non era in grado di scegliere sensatamente, e via dicendo.
Penso che siano gli amatoriali incapaci, magari entusiasti, i volontari cui si riferiva Jovanotti. Quelli che non possono dare granché, che hanno voglia di imparare e vedono nella gratuità l'opportunità di farlo. In teoria è questo che dovrebbe intendersi come volontariato, e non la pretesa di ottenere prestazioni professionali senza pagarle, specie se poi si finisce per abbassare gli standard richiesti per spendere il meno possibile, vittime e carnefici di una concezione al ribasso delle competenze culturali.
L'ultima trovata di Dario Franceschini, illuminato ministro della Cultura – e potrei inferire, ma cavallerescamente scelgo di soprassedere – è la creazione di una Biblioteca Nazionale dell'Inedito. Tralasciando l'implausibilità – Dove? Come? Come aggiornarla? Come sarebbe possibile contenere una tale enormità di manoscritti? - e l'inutilità della proposta, la domanda cui sarei curiosa di ricevere risposta è “Perché?”. Perché cancellare la fase della selezione e della correzione, il momento in cui si decide del valore di un oggetto culturale?
Il problema non è poi Franceschini, che è stato piazzato in un posto in cui non ci vuole molto per capire che non gli compete.
È la società che gli sta intorno, e che determina l'importanza che le masse assegnano alla cultura. Un'entità astratta che non necessita di competenze, né di studio, né di particolari capacità. Un livellamento degli standard sotto il minimo, e onestamente non mi viene neanche da additare le cosiddette masse come concause della situazione. Le masse sanno ciò che vedono. E se vedono che i sedicenti lavoratori della cultura sono capre quanto loro, quanto valore possono dare alla cultura?
E mentre scrivevo mi sono persa, e non riesco più a raccogliere il filo che doveva guidarmi. Parlavo dello sfruttamento del lavoratore culturale, e di come questo sia aggravato dall'affollamento interno di incapaci pronti a svendere le proprie competenze, che valgono comunque meno di quanto non vangano pagate, per poco che sia. Bisognerebbe far capire perché si chiama “lavoro”, sarebbe utile spiegare a chi non è in grado di svolgerlo che sarebbe il caso smettesse di fingersi editor/traduttore/librocompetente. Sarebbe bello che i veri lavoratori riuscissero ad accordarsi per non accettare più contratti che sono soprusi, spingendo chi intende comprarli per due soldi ad alzare l'offerta.
Sarebbe bello. Da crearci una Biblioteca dell'Appello Inascoltato.


(Giusto per essere chiari: la perdita di competenze interne non giustifica lo sfruttamento dei lavoratori culturali. Mai. Le cause che portano al formarsi di una data situazione non tolgono responsabilità a chi della situazione si approfitta bassamente.)