Arresto
di sistema di Charles Stross – traduzione di Marco Piva-Dittrich –
Zona 42, 2015
Questo
libro mi ha ispirata un sacco dalla prima volta che ne ho carpito
qualche informazione. Non che ne avessi carpite molte, giusto il
concetto di una rapina in banca perpetrata da un'orda di orchi. Non
avevo capito che si trattasse di una rapina effettuata in un gioco di
ruolo virtuale, né che la storia si sarebbe incentrata proprio sul
legame tra un fatto avvenuto nel suddetto universo virtuale e le relative ripercussioni sul mondo reale. Perché la rapina è stata
effettiva, gli oggetti trafugati dalle cassette di sicurezza sono
scomparsi.
È
un libro curioso, in cui non è poi così facile entrare, e che forse
non è adatto a chi non è abituato ad avere a che fare con computer
e giochi di ruolo. Almeno credo, io non è che ne abbia più che una
vaga infarinatura e problemi non ne ho avuti, ma se
penso a mio padre che cerca di leggerlo, ecco, la situazione sarebbe
tragicomica.
E
dunque, c'è un'indagine in corso imperniata su questa rapina e su
come sia stato possibile metterla in atto, condotta su più fronti.
Quello della polizia, raccontato dal punto di vista di Sue, quello
della azienda che gestiva la banca online – la sto semplificando di
molto – narrata dal punto di vista di Jack, un programmatore, e
infine quello della compagnia assicurativa collegata all'azienda
derubata, raccontato tramite Elaine. Gradita particolarità: è un
romanzo scritto in seconda persona, cosa che finora mi era capitata
soltanto leggendo Calvino.
Ora,
il contesto in cui si svolgono le indagini è forse più interessante
delle indagini stesse. La storia sarebbe ambientata nella Scozia del
2017, ma è il 2017 che Stross si immaginava nel 2007. Con un legame
tra realtà fisica e realtà virtuale molto più stretto, taxi
guidati da un sistema operativo, simil-Google Glasses indossati da
tutti, che rendono ogni informazione immediatamente raggiungibile.
Che gli smartphones non sono poi così lontani, ma io sono
affezionata ai vecchi Nokia-mattone, quindi per me è ancora una
novità. La Scozia si è frattanto separata dal Regno Unito e si è
unita all'Unione Europea, la convergenza culturale e digitale ha
portato enormi cambiamenti nella vita di tutti i giorni come nei
rapporti tra i conglomerati finanziari e gli stati.
E
dunque sì, un libro ganzo e interessante, anche se non posso
esimermi dal far notare una certa piattezza in alcuni personaggi –
Elaine e Sue sono quasi intercambiabili, e Liz, superiore di Sue,
sembra una loro versione più anziana – ma nulla di eclatantemente
stereotipico.
Il
viaggio di Murray Bail – traduzione di Ada Arduini – Calabuig,
2015
Questa
è stata una lettura lenta. Non nel senso di pesante o noiosa, ma nel
senso di calma. Al centro del romanzo c'è Frank Delage, un
costruttore di pianoforti innovativi che, durante il viaggio che lo
riporterà nella natia Australia, ripensa alla sua esperienza a
Vienna, dove ha tentato di vendere e piazzare i propri pianoforti,
fallendo miseramente ad ogni tentativo. Non perché il suo pianoforte
abbia dei problemi, ma perché Frank è fatalmente incapace di
venderlo. È un personaggio strano, monotematico, che sembra
indossare una strana corazza che lo rende impermeabile alla
comprensione dei modi sociali, ed è l'unico a non rendersene conto.
A Vienna incontra, per somma fortuna, Amalia von Schalla, cui si
aggrapperà per tentare di infiltrarsi nell'immobile contesto
musicale europeo, e tramite lei conoscerà la figlia, che torna
insieme a lui verso l'Australia, e avrà un paio di incontri
interessanti dal punto di vista musicale.
È
un romanzo lento, dicevo, perché racconta insieme del finale – o
quasi finale – e di come Frank vi sia giunto. Scorre con calma,
seguendo le onde che riportano Frank a casa, rimpallando quasi senza
avvertire tra Vienna e il viaggio stesso. E il racconto della Vienna
di Delage si alterna a quello dei passeggeri sulla nave, e poi torna
a Vienna, alla madre di Elisabeth, Amalia, che non si capisce fino a
che punto Delage tenga alla figlia in quanto tale. E non so, è un
libro che un po' dice e un po' tace, e viene il dubbio che il
silenzio dipenda dalla mancanza di intensità con cui vivono i suoi
personaggi. Soprattutto Frank, che tolto l'amore per il suo piano,
non riesco neanche a immaginarlo.
Il
popolo dell'autunno di Ray Bradbury – traduzione di Remo Alessi –
Mondadori, 2002
Io
so che è tremendo da ammettere, ma questo è il primo libro di
Bradbury che io abbia mai letto. Fahreneit 451 compreso. Lo so, è un
po' una bestemmia, però certi libri devono chiamare, che se mi ci
approccio per conto mio mi respingono e basta. Pure questo ci ha
messo un po', che me l'hanno regalato due amici (belli) a Natale, ma
finalmente ha chiamato. E mi è piaciuto tantissimo.
Ci
sono Jim Nightshade e Will Halloway, tredici anni, che vivono in un
paesino dell'Illinois e abitano l'uno di fronte all'altro. Sono
inseparabili, anche se già sono diversi. Will è attento e prudente,
Jim è come un petardo in procinto di scoppiare, sempre con lo
sguardo all'orizzonte, con la testa in fermento, senza remore. Will,
a pensarci bene, è un po' il suo Grillo Parlante.
E
arriva in città un luna-park itinerante, con le sue strane
attrazioni, il suo labirinto degli specchi, la sua giostra chiusa di
giorno ma che di notte suona la Marcia Funebre di Chopin al
contrario, con l'Uomo Tatuato e Mr. Cooger. E ovviamente è un
luna-park con un segreto, un segreto che parla a Jim come parla al
padre di Will, cinquantaquattrenne custode della biblioteca, arso
dalla fame dell'estate.
E
immagino che voi conosciate e adoriate Bradbury, quindi non sto
neanche a consigliarlo. Immagino sia implicito nell'autore. Però è
stato interessante leggerlo e pensare a quanto debbano idolatrarlo
Stephen King, Neil Gaiman e Joe R. Lansdale.