Dunque,
vediamo. Che ne è stato di te, Buzz Aldrin? di Johan
Harstad, edito da Iperborea nel lontano 2008 nella
traduzione di Maria Valeria D'Avino. L'ho trovato ad
aspettarmi su una bancarella di libri usati mesi fa, ero appena
arrivata a Torino e accumulavo libri usati con la tipica furia di chi
ha sempre vissuto in città prive di Libraccio. Mi è stato
consigliato ripetutamente e a lungo da diverse persone. Consigli che
ricordo a distanza di quasi dieci anni, un po' per la fiducia verso
chi me ne ha parlato e un po' per l'intensità del suggerimento. Ho
sempre avuto l'impressione che fosse uno di quei libri da leggere
assolutamente, senza se e senza ma. E ora che l'ho appena finito,
davvero, non lo so. Sono in netta minoranza, lo so, ma non sono
riuscita ad amarlo. Troppa distanza tra me e Mattias, il
protagonista, forse. È che proprio il suo modo di vivere mi fa
incazzare come una biscia. È fatto di quella debolezza che risucchia
gli altri, mi pare il tipo di persona che ti rimane aggrappata per
abitudine per poi abbandonarti, ed è troppo tardi quando pensi che
vorresti non averlo mai incontrato. Ma questa sono io, è il mio modo
di vedere Mattias e chissà chi sto sovrapponendo alla sua immagine
di carta.
La
trama, vediamo. C'è Mattias, che ci racconta le sue vicende in prima
persona. Tutto inizia con Mattias che lavora in un vivaio,
soddisfatto del proprio lavoro. Gli piace la silenziosa routine, i
rapporti immobili coi colleghi, gli piace portare mazzi e corone in
giro. Gli piace sentirsi una piccola e utile ruota nell'ingranaggio
che governa il mondo, si sente al sicuro nell'anonimato. Non cerca
altro, non cerca il successo. È una filosofia che gli ha passato
Buzz Aldrin, il secondo uomo a camminare sulla Luna. E fin qui va
tutto bene. Sta con Helle da dodici anni, parrebbe esserne
innamorato. Ha un amico stretto, Jorn, e dei genitori che gli
vogliono bene e che lui cordialmente ricambia. Adora cantare e sembra
essere un virtuoso, ma non lo fa mai, sempre per la questione del non
farsi notare. E poi a un certo punto il terreno inizia a crollargli
da sotto i piedi, prende una nave con Jorn e si apre una crepa tra la
sua vita di prima e quella che segue. E io magari non aggiungo altro.
In
Mattias debolezza ed egoismo vanno di pari passo, ed è questo che
non riesco a sopportare. È lecito non volersi esporre, ma allo
stesso tempo è crudele privare gli altri della propria presenza. Non
riesco a spiegarmi bene; non penso che apparteniamo agli altri,
eppure non riesco a pensare che siamo completamente nostri. Col
tempo, con la fortuna e forse con un briciolo di impegno – ma
diciamocelo, soprattutto fortuna – sono riuscita a formarmi un
sacco di rapporti importanti con persone che adoro. E che la loro
vita competa soltanto a loro è sacrosanto, ma allo stesso tempo se
di punto in bianco decidessero di tagliarmene fuori, ecco, mi
sentirei come derubata di qualcosa di importante. Ed è quello che fa
Mattias, scompare, rifiuta di capire il danno che provoca. E io
questo non riesco a sopportarlo nemmeno in personaggio.
Per
il resto è un bel libro, davvero. Forse si dilunga un po' troppo, le
storie dei diversi personaggi vengono affrontate in maniera un po'
schematica, una per volta. È anche uno dei pochi libri che mi ha
fatto venire voglia di sottolinearne alcuni punti, che la filosofia
di Mattias la aborro, forse, proprio perché a volte ci annego.
Lo
consiglio, pur col mio astio per il protagonista, che il libro non ne
ha colpa.