L'ultimo
amore di Baba Dunja di Alina Bronsky – traduzione di Scilla Forti –
Keller Editore, 2016
A parte il fatto che io le
copertine della Keller le adoro, e questa nello specifico mi piace
tantissimo; questo libro l'ho pescato in biblioteca, dopo averlo
adocchiato da lontano. Non speravo nella sua presenza. Dell'autrice
ho già letto un paio di libri, La vendetta di Sasha che mi ha
lasciata piuttosto delusa e I piatti più piccanti della cucina tatara, che ho adorato e di cui ho chiacchierato entusiasticamente. Stavolta, a metà lettura, mi è venuto da dare un'occhiata alla
sua biografia e sono rimasta spiazzata dalla sua età: ha trentotto
anni, il che non fa di lei una ragazzina, ovviamente, non stiamo
parlando di una baby-autrice. Quello che mi stupisce è la
contrapposizione tra l'età delle sue protagoniste – sia in I
piatti più piccanti della cucina tatara che in L'ultimo amore di
Baba Dunja – e la sua. Soprattutto mi trovo ad ammirare la sua
capacità di penetrare nelle problematiche della vecchiaia, nel
raccontarla così sinceramente e approfonditamente. Avrei creduto che
si fosse almeno affacciata al suo autunno, per come lo descrive,
invece niente, è ancora piena di foglie verdi, e di certo lo era
quando ha pubblicato il suo primo romanzo.
Dunque, di che parla questo
libro? C'è Baba Dunja, che adesso non ricordo quanti anni abbia, ma
deve aggirarsi intorno ai 70-80. Racconta in prima persona della sua
vita in un villaggio semi-abbandonato in Ucraina da cui sono fuggiti
quasi tutti gli abitanti per via delle radiazioni in seguito a una
perdita di materiale nucleare. Sono pochi ad abitare in quel
villaggio, una manciata di persone. Baba Dunja ha una figlia in
Germania che le manda pacchi di viveri, una nipote che non ha mai
visto e forse non vedrà mai, ma cui manda tutto il suo affetto. Ha
vicini anziani, vicini terminali, vicini che piangono di fronte alla
televisione spenta. Vede i fantasmi, racconta della sua vita, va
avanti.
E non capisci bene perché ci
siano queste persone che abitano un villaggio che prima o poi li
porterà alla morte.
È un libro breve,
gradevolissimo per stile e personaggi, che definirei senza dubbio
“leggero”, non fosse per quella nota di morte in sottofondo.
Si
può fare di Birgit Vanderbeke – traduzione di Paola del Zoppo –
Del Vecchio Editore, 2013
Questo libro l'ho letto perché
non avevo nient'altro con me; ero in biblioteca, una referente del
servizio civile ci stava spiegando l'organizzazione della sala di
lettura. Poi ha chiesto se qualcuno avesse voglia di rimanere a dare
il cambio alla collega e mi sono fatta avanti. Solo che il libro che
stavo leggendo l'avevo lasciato al piano di sotto, quindi ho
acciuffato da uno scaffale il primo che mi ha incuriosita.
Che gioia che sia stato questo.
Che, non so, il titolo me l'aveva fatto ipotizzare diverso, non ero
così fiduciosa. Eppure mi è piaciuto
veramente un sacco, l'ho iniziato e finito nel giro di un paio di
giorni particolarmente impegnati. È proprio una lettura di quelle
che intrattengono e risollevano allo stesso tempo, eppure “piene”.
Sarà comunque che parto da una concezione di come il mondo dovrebbe
andare ben vicina a quella dell'autrice, che viene espressa nel libro
senza troppi giri di parole, sia dai suoi personaggi che dal loro
stile di vita. È un libro che parla delle persone, e di come le
persone rischino di allontanarsi dalla loro umanità trascinate da
una fame che non è loro, ma che viene piuttosto forzata, inculcata.
È un libro gonfio di rispetto ed ecologia.
La protagonista è... ok, lo
ammetto, non ne ricordo il nome, né riesco a pescarlo da una
qualsiasi recensione online. È uno degli inconvenienti derivanti dal
restituire un libro in biblioteca prima di averlo terminato,
accidenti. Ad ogni modo, la voce narrante è quella della
protagonista, una logopedista di origini alto-borghesi sposata a un
certo Adam, più giovane, di famiglia umile e proletaria. Vengono da
classi sociali estremamente differenti e onestamente mi è
dispiaciuto che il loro incontro non venisse raccontato nel corso del
libro. Voglio dire, com'è che sono venuti in contatto questi due
così diversi? Il punto però è che pur essendo tanto diversi si
apprezzano e si rispettano a vicenda, in barba alla famiglia di lei
che Adam non può proprio vederlo.
Ma non si tratta di una
storiella sugli amori sofferti, tutt'altro. La questione delle classi
viene inclusa in quanto fa parte della storia, ma non c'è alcun
disagio, alcuna sofferenza. Sono una coppia innamorata e va bene
così. A loro, almeno, va bene così.
Una coppia che si trova a vivere
con due bambini lontano dalla città, in un paesino in cui tutto è
verde e dove “è tutto campi”. Con Adam e le sue mani d'oro, che
ripara e tiene da parte tutto ciò che il resto del mondo ritiene
invendibile, che scrolla le spalle e di fronte a una qualunque
difficoltà dice che “Si può fare”, basta rimboccarsi le maniche
e non avere paura di un po' di fatica. Alla fine ci si arrangia, alla
fine “tutto andrà bene”, basta fare del proprio meglio. Ma il
punto di fondo è anche quello che si intende con “bene”. Alla
famiglia protagonista di questo romanzo e alle persone che vi
orbitano intorno non importa granché del successo economico, del
riconoscimento sociale di una qualche specialità. Basta avere un
tetto, basta avere qualcosa da fare, essere felici nel quotidiano.
Onestamente, da parte mia, mi viene anche da aggiungere che “chi se
ne frega di tutto il resto”.
Mi chiedo come verrebbe letto
questo libro da una persona che ha un'idea di felicità diversa, che
ha fatto delle proprie ambizioni un vessillo. Non lo so, mi
incuriosisce. Dopotutto la visione della Vanderbeke non si discosta
poi tanto dalla mia; per me la comune in campagna, con l'orticello e
un sacco di amici, è il sogno di una vita.