Piccoli scorci di libri #62 - L'ultimo amore di Baba Dunja e Si può fare

L'ultimo amore di Baba Dunja di Alina Bronsky – traduzione di Scilla Forti – Keller Editore, 2016

A parte il fatto che io le copertine della Keller le adoro, e questa nello specifico mi piace tantissimo; questo libro l'ho pescato in biblioteca, dopo averlo adocchiato da lontano. Non speravo nella sua presenza. Dell'autrice ho già letto un paio di libri, La vendetta di Sasha che mi ha lasciata piuttosto delusa e I piatti più piccanti della cucina tatara, che ho adorato e di cui ho chiacchierato entusiasticamente. Stavolta, a metà lettura, mi è venuto da dare un'occhiata alla sua biografia e sono rimasta spiazzata dalla sua età: ha trentotto anni, il che non fa di lei una ragazzina, ovviamente, non stiamo parlando di una baby-autrice. Quello che mi stupisce è la contrapposizione tra l'età delle sue protagoniste – sia in I piatti più piccanti della cucina tatara che in L'ultimo amore di Baba Dunja – e la sua. Soprattutto mi trovo ad ammirare la sua capacità di penetrare nelle problematiche della vecchiaia, nel raccontarla così sinceramente e approfonditamente. Avrei creduto che si fosse almeno affacciata al suo autunno, per come lo descrive, invece niente, è ancora piena di foglie verdi, e di certo lo era quando ha pubblicato il suo primo romanzo.
Dunque, di che parla questo libro? C'è Baba Dunja, che adesso non ricordo quanti anni abbia, ma deve aggirarsi intorno ai 70-80. Racconta in prima persona della sua vita in un villaggio semi-abbandonato in Ucraina da cui sono fuggiti quasi tutti gli abitanti per via delle radiazioni in seguito a una perdita di materiale nucleare. Sono pochi ad abitare in quel villaggio, una manciata di persone. Baba Dunja ha una figlia in Germania che le manda pacchi di viveri, una nipote che non ha mai visto e forse non vedrà mai, ma cui manda tutto il suo affetto. Ha vicini anziani, vicini terminali, vicini che piangono di fronte alla televisione spenta. Vede i fantasmi, racconta della sua vita, va avanti.
E non capisci bene perché ci siano queste persone che abitano un villaggio che prima o poi li porterà alla morte.
È un libro breve, gradevolissimo per stile e personaggi, che definirei senza dubbio “leggero”, non fosse per quella nota di morte in sottofondo.

Si può fare di Birgit Vanderbeke – traduzione di Paola del Zoppo – Del Vecchio Editore, 2013

Questo libro l'ho letto perché non avevo nient'altro con me; ero in biblioteca, una referente del servizio civile ci stava spiegando l'organizzazione della sala di lettura. Poi ha chiesto se qualcuno avesse voglia di rimanere a dare il cambio alla collega e mi sono fatta avanti. Solo che il libro che stavo leggendo l'avevo lasciato al piano di sotto, quindi ho acciuffato da uno scaffale il primo che mi ha incuriosita.
Che gioia che sia stato questo. Che, non so, il titolo me l'aveva fatto ipotizzare diverso, non ero così fiduciosa. Eppure mi è piaciuto veramente un sacco, l'ho iniziato e finito nel giro di un paio di giorni particolarmente impegnati. È proprio una lettura di quelle che intrattengono e risollevano allo stesso tempo, eppure “piene”. Sarà comunque che parto da una concezione di come il mondo dovrebbe andare ben vicina a quella dell'autrice, che viene espressa nel libro senza troppi giri di parole, sia dai suoi personaggi che dal loro stile di vita. È un libro che parla delle persone, e di come le persone rischino di allontanarsi dalla loro umanità trascinate da una fame che non è loro, ma che viene piuttosto forzata, inculcata. È un libro gonfio di rispetto ed ecologia.
La protagonista è... ok, lo ammetto, non ne ricordo il nome, né riesco a pescarlo da una qualsiasi recensione online. È uno degli inconvenienti derivanti dal restituire un libro in biblioteca prima di averlo terminato, accidenti. Ad ogni modo, la voce narrante è quella della protagonista, una logopedista di origini alto-borghesi sposata a un certo Adam, più giovane, di famiglia umile e proletaria. Vengono da classi sociali estremamente differenti e onestamente mi è dispiaciuto che il loro incontro non venisse raccontato nel corso del libro. Voglio dire, com'è che sono venuti in contatto questi due così diversi? Il punto però è che pur essendo tanto diversi si apprezzano e si rispettano a vicenda, in barba alla famiglia di lei che Adam non può proprio vederlo.
Ma non si tratta di una storiella sugli amori sofferti, tutt'altro. La questione delle classi viene inclusa in quanto fa parte della storia, ma non c'è alcun disagio, alcuna sofferenza. Sono una coppia innamorata e va bene così. A loro, almeno, va bene così.
Una coppia che si trova a vivere con due bambini lontano dalla città, in un paesino in cui tutto è verde e dove “è tutto campi”. Con Adam e le sue mani d'oro, che ripara e tiene da parte tutto ciò che il resto del mondo ritiene invendibile, che scrolla le spalle e di fronte a una qualunque difficoltà dice che “Si può fare”, basta rimboccarsi le maniche e non avere paura di un po' di fatica. Alla fine ci si arrangia, alla fine “tutto andrà bene”, basta fare del proprio meglio. Ma il punto di fondo è anche quello che si intende con “bene”. Alla famiglia protagonista di questo romanzo e alle persone che vi orbitano intorno non importa granché del successo economico, del riconoscimento sociale di una qualche specialità. Basta avere un tetto, basta avere qualcosa da fare, essere felici nel quotidiano. Onestamente, da parte mia, mi viene anche da aggiungere che “chi se ne frega di tutto il resto”.

Mi chiedo come verrebbe letto questo libro da una persona che ha un'idea di felicità diversa, che ha fatto delle proprie ambizioni un vessillo. Non lo so, mi incuriosisce. Dopotutto la visione della Vanderbeke non si discosta poi tanto dalla mia; per me la comune in campagna, con l'orticello e un sacco di amici, è il sogno di una vita.