Questo
libro mi era stato offerto in lettura da Giovanni – quello di Vita da editor, uno dei pochi blog che seguo con una certa costanza e
ora pure direttore editoriale della giovane casa editrice Terrarossa
– che era appena uscito. Mi incuriosiva un sacco, anche perché di
Cristò si era parlato abbastanza in seguito alla pubblicazione del
suo La carne (Intermezzi). Solo che tra una cosa e l'altra mi sono dimenticata di rispondere, - non ne vado affatto fiera, sia chiaro - e niente, mi è rimasto sul gozzo per mesi. Il
caso ha voluto che lo stesso Manuele di Intermezzi, durante il Salone dell'Oca, mi mandasse proprio da Terrarossa, ed è lì che
Giovanni, nonostante la discreta figura da cioccolataia, mi ha
omaggiata di Restiamo così quando ve ne andate di Cristò. E
l'ho iniziato un paio di giorni fa per finirlo stamattina, divorato
quasi completamente nel viaggio di ritorno da casa di mia madre. Cose
che mi succedono di rado, non so perché ma negli ultimi anni non mi
viene granché da leggere in treno. Vai a sapere.
(Quasi
una cartella e finora del libro non ho citato che titolo e autore.
Professionalissimo).
Quindi
prima di continuare per un inusitato numero di caratteri, specifico
che a me Restiamo così quando ve ne andate è piaciuto così
tanto che ho difficoltà a terminare l'affermazione con un termine di
paragone adeguato. Per dire.
Le
prime pagine mi hanno lasciata fredda. Il romanzo è –
prevalentemente – in prima persona al presente, il narratore è il
protagonista Francesco, quarantenne che lavora in un supermercato –
e non ce la fa più – e non suona più il piano, nonostante la
musica fosse stata il suo motivo. Tira avanti ad hashish e
ricerche su google che lo portano lontanissimo, prima e dopo il
lavoro si chiude in quella che chiama la stanza delle esperienze
estatiche e ipnotiche e fuma canne su canne, col portatile
bollente sulle cosce e lascia passare il tempo. A volte chiama Monica
per fargli compagnia – oddio, “compagnia”, le prime comparse di
Monica sembrano giusto un'alternativa all'onanismo e fanno una
tristezza infinita – e poi ci sono Facebook, c'è l'unico amico
Donatello che continua a chiedergli di leggere il suo manoscritto, ci
sono i sensi di colpa per quello che non è diventato che lo
rincorrono, sua madre che lo chiama una volta alla settimana... la
vita di Francesco è di uno squallore lattiginoso e non è facile né
ovvio che faccia simpatia. Ma il punto non dev'essere quello per
forza, no?
Dicevo
che le prime pagine mi avevano lasciata freddina; l'inizio è il
sabato mattina di Francesco, il suo rincorrere link su Wikipedia su
argomenti poco interessanti, rollamento di canne e via così.
Leggendo, ho provato quella punta di timore da “oddio, dovrò mica
cassare il romanzo?”, che odio scrivere stroncature, e poi mi piace
l'entusiasmo di Terrarossa e l'autore mi è stato consigliato così
tanto e con così tanta convinzione che... beh, ad ogni modo le prime
pagine sono passate, sono entrata dentro il libro ed è stato un po'
come visitare la stanza delle esperienze estatiche e ipnotiche. Ero
seduta sul divano sfondato, coperto da una stoffa ruvida e scura,
pregna di fumo stantio e odore di cibo. Vedevo la luce che non sapeva
nemmeno se entrare, tanto stonava con l'atmosfera grigia. La prima
parte del romanzo è quasi in bianco e nero, prima del colpo di reni
di Francesco – una cosa che succede a pagina 80 e mi ha ispirato un
bel po' di madonne dedicate a Cristò – ed era in bianco e nero
pure il vagone del treno, mentre leggevo.
Ora
potrei parlare di come si svolge il già citato colpo di reni di
Francesco, dei personaggi che vi ruotano attorno, della luce che
cambia nel suo appartamento. Ma il punto non è tanto quello, ecco.
La vita di Francesco non è una linea retta ma un elastico che ha
perso di forza e si srotola confusamente sul pavimento. Non nel senso
che la narrazione sia confusa, tutt'altro. È che Francesco è più
persona che personaggio, non ha idea di quale sia il suo ruolo
attanziale, la sua motivazione e i suoi sentimenti sono ondivaghi al
punto che non riesce a raccontarseli neanche da solo. Francesco si
racconta un sacco di palle, è egoista, immaturo in un modo che ti
chiama i ceffoni dietro la nuca. È umano, ecco cos'è. È nato per
inciampare. E se come persona questo è un problema, in un romanzo
trasmette una pungente sensazione di accoglienza.
Francesco
fa un po' quello che si è ripromesso di fare e un po' no; cerca il
suo equilibrio, si interroga sui suoi rapporti, si fa tutte le
domande del caso. Suona, fuma, scopa e via così.
I
personaggi sono... come dire, ci sono. Monica all'inizio non la
capivo. Era questa immagine evanescente, così priva di coscienza di
sé che manco riuscivo a figurarmela e anche a lettura terminata non
riesco a non farmi qualche domanda. Non riesco a capire neanche
Fatima, in realtà, e Francesco men che meno. Ma va bene così.
Persone, non personaggi.
Ci
sono un paio di aspetti che ho apprezzato parecchio nel romanzo; lo
svelamento improvviso di chi è che resta così quando ce ne andiamo,
i piccoli intermezzi meta-narrativi in cui Francesco si immagina un
narratore, il potere dell'ambientazione, le ipotesi di finale.
E
non so che altro aggiungere, se non che Manuele di Intermezzi aveva
ragione. Grazie per avermi
mandato da Terrarossa, Manuele. A buon rendere.