Intervista a Luca Tarenzi

A questo post tengo molto. È la seconda intervista di uno scrittore che pubblico e sono contenta che sia di Tarenzi. Oddio, mi spiace non essermi 'allenata' abbastanza con le domande, prima. A ben vedere ne ho fatte poche di pregnanti, ma vabé.
Ho già chiacchierato dei suoi libri qui, qui e qui e ho fatto cenno alla sua estrema simpatia qui. Non so quanto sia lecito sbrodolarsi in lunghe tirate gonfie di ammirazione, prima di pubblicare un'intervista. Ovvio che se non adorassi i mondi che crea e se non intendessi consigliarli con tutto il mio essere, neanche l'avrei intervistato. Posso dire giusto che è uno dei pochi scrittori, soprattutto di urban-fantasy, che sarei lieta e fiera venissero esportati all'estero?
Cominciamo, va'.



Una piccola presentazione?

Cioè devo presentare me stesso?...
Tappo. Teinomane. Ciclotimico. Stonato. 38 anni all’anagrafe, la metà ai test sull’età mentale. Ho il cellulare sempre in mano. Faccio complimenti imbarazzanti. Rido a voce troppo alta. Guardo il sedere alle ragazze. Mi rado una volta a settimana. E non mi pettino mai. Proprio mai.

Quando hai iniziato a leggere?

Da bambino, principalmente per merito di mia madre. Ma a conti fatti non poi così presto: credo di aver letto il mio primo libro intero verso gli 11 anni.

Quando hai scoperto il fantastico?

Nello stesso momento: il libro di cui sopra era La storia infinita. Subito dopo è venuto La spada di Shannara di Terry Brooks. Tolkien ha dovuto aspettare la fine delle medie :-P

Scrittori di riferimento?

Quando ero agli inizi Michael Moorcock, Stephen Donaldson, Neil Gaiman (sempre sia lodato! ND Leggy), Ursula LeGuin, Gene Wolfe e William Gibson. Oggi anche Jim Butcher, Rick Riordan, Jim C. Hines e quello straordinario genio incompreso che è L. Jagi Lamplighter.

Cosa pensi della situazione del fantastico in Italia? Vedi spiragli?

Come tra le sbarre di una cella. Sbarre molto strette.
In questo momento nel nostro paese la situazione è difficilissima per l’editoria in generale e per il fantasy in particolare. Se mi mettessi a dare i numeri delle vendite, dareste i numeri anche voi. Oppure scuotereste la testa col sorrisetto cinico di chi-lo-aveva-sempre-saputo.
Per contro, nella mia esperienza consapevolezze di questo genere non hanno mai scoraggiato nessuno dal continuare indefessamente a scrivere, né gli autori pubblicati né gli aspiranti in cerca di pubblicazione. C’è chi la chiama follia (o stupidità), e c’è chi ricorda che quasi chiunque abbia avuto successo nella storia umana era un povero pazzo prima di avere successo.
Quelli che non lo hanno avuto sono rimasti poveri pazzi.

Quando hai capito che volevi scrivere davvero?

Mai.
Se la domanda fosse “Quando hai iniziato a scrivere?” la risposta sarebbe “Tardi: a 27 anni suonati”. E nemmeno allora sapevo bene se volevo farlo o no (e non lo dico tanto per dire, è così).
Oggi per la verità ho smesso di farmi la domanda. Scrivo perché è una (bella) parte del mio lavoro, e una delle poche cose che… ops stavo per dire “che so fare”. Ma una cosa del genere non la posso e non la devo giudicare io.
(Nono, lo sai proprio fare. Vai tra'. NdLeggy)

Che ruolo hanno avuto i tuoi studi universitari nella scrittura?

L’università e la laurea in Storia delle Religioni, più che una causa, sono state una specie di logica conseguenza di una fissa per gli dèi, gli angeli, le magie, i mostri che mi porto dietro da... forse dal primo libro di mitologia che mi hanno messo tra le mani da bambino. Quando è stato di preciso non lo so, ma prima de La storia infinita che citavo sopra.
Quindi un sacco di tempo fa, ahimè... (si scrocchia un po’ le giunture indurite dall’artrosi).
È altrettanto vero, comunque, che l’università mi ha messo in condizioni di avvicinare tutte queste materie con un occhio più scientifico e più maturo... ovvero capire cosa è fico mettere nei romanzi e cosa mandare a quel paese anche se è scientificamente corretto!

È cambiato il tuo rapporto coi libri degli altri, quando anche i tuoi hanno cominciato ad apparire sugli scaffali delle librerie?

Sinceramente?
Ma proprio proprio sinceramente?
Evviva, adesso ho più soldi da spendere per comprare libri!”
Scherzi a parte no, non è cambiato granché. Continuo a pensare che gli autori che amo siano mooolto più bravi di me, e a cercare le cose che mi incuriosiscono di più. Pubblicare è un’innegabile soddisfazione (più per l’ego che per il portafogli, se sei un autore fantasy italiano), ma a quel punto i problemi della tua vita di autore non sono risolti: cominciano.

Come traduttore, come sono state le tue esperienze?

Dall’orrido al sublime.
Nel 99% dei casi un traduttore non sceglie cosa tradurre: prende un lavoro che gli viene proposto o assegnato, come qualunque professionista. Dunque mi sono trovato tra le mani libri che avevo già letto di mia iniziativa, libri che non conoscevo ma che sono stato felice di scoprire e libri che non avrei mai avvicinato in vita mia (immancabilmente a ragione).
Ho tradotto cose molto divertenti come La valle degli eroi di Jonathan Stroud (Salani) o realmente affascinanti come Più nero della notte di Ian Tregillis (Asengard, in uscita in questi giorni), e cose che non citerò perché non sono orgoglioso che portino il mio nome nella prima pagina...
In generale tradurre è un’ottima esperienza per chi vuole scrivere: ti costringe a guardare la tua lingua attraverso le lenti di un’altra, e a capire come far collimare – senza violarla – l’espressività di un altro scrittore con la tua.

Che significa per te scrivere?

Domanda difficile.
E non perché la risposta sia nascosta nei meandri segreti della mia psiche, ma molto semplicemente perché, come dicevo sopra, tendo a non pormela da solo.
Scrivere è un lavoro, ogni tanto una fissa, a volte un piacere, spesso uno sfogo e nello stesso tempo una fonte di incazzatura, quasi sempre una disciplina, quasi mai una soddisfazione.
Ma a conti fatti non è una cosa che abbandonerei. Non in questo momento della mia vita.

Che cosa conta di più per te in un libro? Cos'è che giudichi più importante?

Che ti ipnotizzi. Il resto non conta.
O meglio, il resto – lo stile, la forma, il linguaggio, le odiose saccenti regolette e via dicendo, ovvero tutto quel che si può riassumere in “scrivere bene” – è finalizzato a questo e a questo soltanto: che una storia scritta riesca a ipnotizzare il lettore. Nel caso qualcuno ci riesca anche senza l’apparato di cui sopra, va benissimo lo stesso.
A meno che non si vogliano scambiare i fini coi mezzi, nel qual caso si parla di “feticismo scrittorio”, che tutta un’altra malattia.

Ci sono le critiche costruttive e quelle campate in aria. Ti è mai capitato di riceverne di assurde?

Hai voglia!
Le migliori sono sempre quelle di chi ti dà seriamente l’impressione di aver letto un libro diverso da quello che hai scritto (e che chiunque altro ha letto, beninteso). E non parlo tanto di quelli che criticano episodi o dialoghi o scene che nel tuo libro NON CI SONO – succede davvero, non scherzo – quanto piuttosto di quelli che mentre leggono il tuo libro ti interpretano l’interno del cranio. “È ovvio che con questa scena stavi cercando di aggiungere il tal effetto, ma non ci sei riuscito per questo o quell’altro motivo”. “È evidente che con questo personaggio volevi esprimere la tal cosa ma, povero te, non ne hai la capacità”.
Se fai notare che queste interpretazioni sono “ovvie” ed “evidenti” solo al tuo interlocutore, visto che non solo a te non sono mai passate per l’anticamera del cervello ma anche che nessun altro dei tuoi lettori, che tu sappia, le ha mai pensate, ti senti rispondere dal critico di turno che “lui sa veramente quel che tu pensi, gli altri sono lettori comuni, non capiscono nulla”. Dico sul serio.
A questo si può aggiungere che, nella mia esperienza personale, le uniche critiche costruttive arrivano da persone di cui ti fidi e in privato. Diffidare per principio di qualunque critica pubblica è un’ottima regola generale.
Non leggerle proprio è una regola ancora migliore.

In 'Quando il diavolo ti accarezza' compare un mercato che mi ha ricordato molto quello in Nessun dove di Gaiman. È una citazione voluta?

È una mia interpretazione di tante scene simili che ho incontrato in libri, film e fumetti. Sicuramente c’è dentro Gaiman, ma anche Grant Morrison, Tim Powers, Ekaterina Sedia, Hellboy e sequenze che mi vengono dai giochi di ruolo. A dirla tutta, però, il principale riferimento consapevole era a Something from the Nightside di Simon Green.

Si possono avere anticipazioni sul prossimo libro?

Discariche.
Veleno.
Spade di lamiera.
Pericolosissimi gabbiani.
(Ah, ecco perché a maggio passi da La Spezia, vieni a fare ricerche sul campo. ND Leggy)
Un casus belli che qualcuno ha buttato via.
E alcuni personaggi metricamente svantaggiati.

Ci sono dei piccoli rituali che segui, quando devi metterti a scrivere?

Non quando inizio ma quando ho finito: un po’ di silenzio e un pensiero al piccolo Spirito domestico che supporta il mio lavoro.

Com'è andata con gli editori?

Come a tanti.
Inizi pubblicando con uno piccolo (al tempo in cui ho iniziato io era meno arduo di adesso, non c’era una tale crisi), e se vai bene alle vendite ti può notare uno più grande. E intanto entri nell’ambiente e ti crei qualche contatto personale, che può sempre tornare utile (e in genere lo fa).
Poi arrivi alle pubblicazioni un po’ più grosse e scopri che i problemi sono appena cominciati.

Come stanno i tuoi animali?

Grassi, felici e mai sazi nonostante la grassezza!

Che stai leggendo adesso?

Blackbringer, un romanzo di Laini Taylor inedito in Italia – ma se vi capitano sotto mano i suoi libri tradotti in italiano leggeteli, valgono la pena! – che parla di creature fatate.
Ma l’ho appena cominciato perciò non chiedetemi ancora com’è :-P

Un consiglio a chi vuole scrivere?

Crederci. Più di quanto ci abbia mai creduto in tutta la sua vita. Crederci al di là del razionale e del sensato, con la fede pura dei mistici. Perché non esiste un momento peggiore di questo in Italia per chi scrive professionalmente o chi vorrebbe farlo. Senza esagerazioni, è tempo di eroi.
E ne servono davvero.

Fine intervista. Una lunghissima sequela di 'grazie' a Tarenzi che si è prestato, e spero che voialtri abbiate gradito. Io sì. Di molto.